La storia e le leggende che, nei secoli, hanno fatto della pianta dell'ulivo uno dei simboli più amati

Le leggende che si ricollegano all'ulivo sono molto più antiche dell'arrivo della sacra pianta sul suolo italiano: esse risalgono alle origini stesse dell'umanità.

Adamo, che si era macchiato del peccato originale, manda il figlio Seth a chiedere all'Angelo il castigo della morte e l'olio di misericordia. L'Angelo consegna a Seth tre semi che egli dovrà mettere fra le labbra del padre dopo la sua morte. Dalle spoglie di Adamo, sepolto sulle pendici del monte Tabor, germogliano un cedro, un cipresso e un ulivo: quest'ultimo, come simbolo di purezza illuminante, di motivazione profonda dell'unzione rituale e del Crisma.

Noè, all'arrestarsi del diluvio, manda la colomba in esplorazione e la vede tornare recando nel becco un ramoscello d'ulivo: è il segno del riemergere delle terre fertili ospitali, ossia del perdono divino (Genesi VIII,II). Il mito riportato dalle Sacre Scritture, da Omero, da numerosi autori, confermato da fregi, mosaici, pitture, ceramiche anche di epoca arcaica, pone l'ulivo al rango di bene prezioso e di simbolo rituale.

Fra le esemplificazioni più suggestive, la disputa tra Poseidone e Pallade Atena per la precedenza nell'erigere un proprio tempio sull'Acropoli ateniese. Zeus propone una gara: ciascuno dei due crei una cosa nuova che sia di utilità per gli uomini. Poseidone fa scaturire nientemeno che il mare ai piedi dell'Acropoli (o, secondo un'altra versione, crea il cavallo).

Atena fa scaturire dal suolo il primo ulivo sativo: vince la lite Atena il cui dono dà benessere, luce abbondanza e quindi pace. Atena dà il suo nome alla città e l'albero da lei piantato nell'Eretteo assume carattere sacro. Erodoto racconta che i Persiani mettono a ferro e a fuoco Atene, incendiano il tempio ma che il sacro ulivo esce verdeggiante e intatto dall'incendio, a significare l'intangibilità di fronte al sacrificio, la capacità di rigenerazione: aspetti questi allora come ora impressionanti di un albero che risorge dalle proprie radici, che sopravvive ai millenni, che appare dotato di un attributo di eternità. Dai frutti degli ulivi sacri ad Atena si estrae l'olio che si assegna ai vincitori dei giochi panateniesi, a significare l'alto valore del prodotto anche nella sua capacità di dar luce, energia, bellezza.

C'è in questo tutto il significato delle sacre unzioni, del Crisma degli ebrei, poi di quello dei cristiani. Costoro, nell'abolire fra i culti pagani quelli dedicati agli alberi, conservano soltanto il significato simbolico e sacrale dell'ulivo e del suo olio: il Cristo va vegliato, prima del mani, la Pasqua cristiana consacrerà ramoscelli di ulivo che saranno rappresentati nei graffiti delle catacombe paleocristiane, l'olio d'oliva servirà al Battesimo, alla Cresima, all'Estrema Unzione, all'Ordinazione sacerdotale, alla consacrazione degli altari.

Non altrimenti del mito la storia, a partire da quella più antica di incerta tradizione che con il mito stesso a volte si confonde, ha continui riferimenti all'estrema importanza economica e sociale dell'ulivo e dei suoi prodotti attorno al bacino del Mediterraneo, culla di splendide civiltà. Già a circa il 4500 a.C. risale la presenza di popolazioni anatoliche nella grande isola di Creta. Quivi, attorno al secondo millennio a.C. si sviluppa una straordinaria civiltà: quella detta delle città palazzo. Gli scavi, riportando alla luce le tracce di questa civiltà improvvisamente e misteriosamente scomparsa, rivelano grandi giare olearie (Cnosso), un frantoio di pietra lavica (Santorino); dei calendari ci informano sulle forniture mensili di olio consacrato destinato alle divinità; il palazzo minoico di Mallia rivela magazzini idonei a contenere 10.000 hl di olio, scorta certamente enorme per la popolazione dell'epoca.

Come a Creta e nelle altre isole egee, così in Mesopotamia, nella magnifica Babilonia, l'olivicoltura e l'olio d'oliva sono apprezzati e ricercati. Poco meno di 2.000 anni a.C., secondo la nuova cronologia, Hammurabi re di Babilonia faceva trascrivere su una stele di diorite (attualmente al museo del Louvre di Parigi) il codice delle leggi del tempo, nel quale era regolamentato, con quello relativo ai beni di primaria importanza, il commercio dell'olio d'oliva.

Dell'importanza dell'ulivo e dei suoi prodotti nella Grecia antica, testimoniano i testi del già citato Omero, in passaggi come quello che descrive il giardino paradisiaco di Alcinoo a Corfù (Odissea canto VII) o la descrizione di Itaca fatta da Atena: "là l'ulivo che corona il porto del suo spesso fogliame... " (canto XIII).

In Egitto, l'elaiotecnica si potrebbe far risalire attraverso la leggenda della Dea Iside, sposa di Osiride, che avrebbe donato agli uomini la capacità di estrarre l'olio dalle olive, a sei millenni or sono. Una prova inconfutabile della presenza e della sacralità dell'olivo nel XII secolo a.C. è comunque un papiro con l'atto di donazione da parte del faraone Ramsete al dio Ra del prodotto di 2.750 ha di uliveto piantato attorno alla città di Eliopoli: "Da queste piante si estrae l'olio purissimo per tenere accese le lampade del tuo santuario".

Rami d'ulivo sono d'altronde scolpiti sui bassorilievi del tempio di Ramsete II a Ermopoli, risalente al XIII secolo a.C.

La Bibbia, di cui abbiamo già dato alcune citazioni, coi suoi continui riferimenti ci informa dell'onnipresenza e dell'abbondanza dell'olio d'oliva in Israele, dove certi mortai e certe presse arcaiche rinvenuti a Haifa ci fanno pensare a una produzione risalente al quinto millennio a.C.

I Fenici, originari del Libano e i Greci, navigatori i primi, colonizzatori i secondi, poi più tardi gli Arabi, trasferiranno l'ulivo e la sua coltura in Spagna, Italia, nel Nord Africa, dove secoli dopo i Romani influiranno largamente sullo sviluppo delle coltivazioni di ulivi nel loro Impero, una potente ed unica organizzazione politica nella quale l'Arca Olearia, borsa del prezioso prodotto, avrà una grandissima importanza, come ne avranno i collegi degli importatori, dei commercianti privati, i "negotiatores" oleari che godranno di speciali privilegi e introdurranno avanzati sistemi di ammasso e di distribuzione.

Alla decadenza dell'Impero corrisponde anche per varie ragioni una crisi olivicola specialmente in Italia, dove infieriranno anche le invasioni barbariche.

Successivamente, la creazione delle fattorie fortilizio e soprattutto l'espansione agricola delle comunità conventuali, protette dal timore di Dio anche contro il vandalismo, consentono un rifiorire, soprattutto dal XII secolo in poi, delle colture e conseguentemente della produzione e dei consumi di olio.

Il prodotto andrà facendosi sempre più importante per una richiesta pressante dei mercati europei e delle Repubbliche Marinare: di Venezia che commercia con Corinto, Tebe, Costantinopoli, di Genova che commercia con la Provenza, con la Spagna, con l'Africa settentrionale. Ne consegue la straordinaria trasformazione dell'Italia, specialmente quella meridionale che vedrà aumentare grandemente impianti e produzione destinata ad un importante esportazione.

Il XVIII secolo, con la scomparsa del feudalesimo e dei relativi carichi, vedrà anche nel campo dell'olio d'oliva un mercato più libero che migliora i profitti consentendo un'ulteriore diffusione del prodotto italiano.

Non è d'altronde ancora in corso la riduzione dell'impiego del prodotto che sarà dovuta alla scoperta dell'illuminazione elettrica, dei lubrificanti minerali e via dicendo.

Sono dunque oggetto di commercio vari tipi di olio: quello di provenienza orientale è utilizzato soprattutto a scopi industriali (per esempio per lavare le lane), come lubrificante, come lampante da illuminazione, mentre già gli oli italiani, essendo i più fini, sono proposti soprattutto a scopi alimentari.

Con la rivoluzione industriale, dal XIX secolo in poi, attraverso alterne vicende storiche e politiche, il Risorgimento, l'unificazione nazionale, le guerre, anche l'olivicoltura subisce i suoi alti e bassi ma è gelosamente mantenuta viva dalle classi contadine e per di più ufficialmente appoggiata dal Potere: tutti i regimi, almeno in teoria, sostengono la volontà di salvaguardare un prodotto di cui l'Italia è diventata il più pregiato produttore del mondo.


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